mercoledì 30 dicembre 2009

Arrapaho


Regia: Ciro Ippolito
Interpreti: Alfredo Cerruti, Daniele Pace, Tinì Cansino
Sceneggiatura: Ciro Ippolito e gli Squallor
Produzione: Italia 1984; Durata: 98'


Scella Pezzata, figlia del capo indiano Palla Pesante della tribù dei Cefaloni, è promessa sposa di Cavallo Pazzo, ma è innamorata di Arrapaho, figlio del capo indiano Mazza Nera della tribù degli Arrapaho, il quale è a sua volta oggetto dei desideri di Luna Caprese dei Froceyenne.

Palla Pesante non può seguire le vicende amorose perché è occupato a invocare gli dei della pioggia, a fare soliloqui con il cavallo Alboreto (un purosangue che giorno dopo giorno si rimpicciolisce fino ad arrivare alle dimensioni di un pony) e a tentare di risolvere il problema delle nascite che nel villaggio sono pari a zero.

CIAK: "In una scenografia western che ricorda più il pratone della Casilina che un territorio dell'Ovest, vivono le tribù "indiane" degli Arrapaho e dei Froceyenne, che si prodigano in una serie di squallidissimi siparietti proto-demenziali. L'amore contrastato tra due giovani, Arrapaho e Ascella Pezzata, promessa in sposa a Cavallo Pazzo, fa in qualche modo da collante. Protagonista il gruppo musicale degli Squallor, Cerruti-Savio-Pace-Bigazzi, che all'epoca conquistò anche una certa notorietà con canzoni trivialissime, molte delle quali in dialetto napoletano".

vareseweb Cinema: "In un West fittizio, strane tribù di indiani intrecciano i loro rapporti. Gli Arrapaho e i Froceyennes condividono le stesse terre e il capo degli Arrapaho vorrebbe sposare la bella "Ascella Pezzata" che però il padre, "Palla Pesante", ha promesso in sposa a "Cavallo Pazzo".
La qualità di film e programmi trasmessi dalle reti nazionali dovrebbe riflettere il valore attribuito dai creatori dei palinsesti al pubblico potenziale, che tutto riversato sui lidi, deve essere ridotto ai minimi storici, almeno a giudicare dalla qualità di questo film. Inqualificabile.
Girato in una discarica romana da Ciro Ippolito e dal gruppo rock-demenziale napoletano degli Squallor, di Arrapaho si può apprezzare solo la consapevolezza della propria bruttezza (attraverso continui rimandi del narratore alla ristrettezza del budget), il resto sconfina in una comicità che attraverso gli indiani vorrebbe essere una satira della televisione, ma che sfocia in uno dei film più brutti della cinematografia italiana, nonostante gli estimatori del Trash provino a rivalutarlo."

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sabato 26 dicembre 2009

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto


Regia: Elio Petri
Sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro
Fotografia: Luigi Kuveiller
Produzione: DAVIDE SENATORE E MARINA CICOGNA PER VERA FILMS
Distribuzione: EURO INTERNATIONAL FILM (1970) - RICORDI VIDEO, PANARECORD, L'UNITA' VIDEO
Paese: Italia 1969
Genere: Drammatico
Durata: 114 minuti

Il capo della Squadra Omicidi di Roma ammazza l'invereconda amante e semina volutamente tracce e indizi per dimostrare che, come garante della Legge e rappresentante del Potere, è al di sopra di ogni sospetto. Uscito indenne dalle indagini, si autoaccusa. Invenzione alla Borges per il primo film italiano sulla polizia con uno straordinario G.M. Volonté. Calibrata costruzione all'americana del racconto in cui si fondono le due anime, realistica ed espressionistica, di E. Petri. Sceneggiato con Ugo Pirro, musiche di Ennio Morricone. Oscar 1970 per il film straniero e Nastro d'argento a G.M. Volonté.

L’accoppiata Elio Petri e Gian Maria Volonté è stata una delle più prolifiche e qualitativamente produttive del cinema italiano, al pari dei sodalizi Fellini-Mastroianni e Antonioni-Vitti, anche se complessivamente sottovalutata dalla critica nostrana e parzialmente rimossa dalle giovani generazioni di spettatori.
Connotata da un forte impegno civile, la collaborazione tra il regista e il grande attore piemontese ha dato uno dei suoi frutti migliori in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che sarebbe diventato un modello espressivo del nostro cinema generando il filone dei cosiddetti thriller politici, i cui canoni compositivi sono già tutti qui, in questo saggio psicanalitico sulle aberrazioni del Potere, incarnate alla perfezione da un Volonté grandiosamente sulfureo, poliziotto assassino della sua amante (Florinda Bolkan), che prenderà coscienza di come il suo ruolo di capo della sezione omicidi lo metta al riparo da qualunque accusa.
Girato da Petri con stile convulso e grande senso dell’immagine, con un’indimenticabile colonna sonora di Ennio Morricone (una delle sue più belle di sempre), Indagine su un cittadino incarna l’essenza stessa del cinema italiano degli anni Settanta, attento alle implicazioni sociali e politiche delle storie narrate quanto ad un discorso sulla forma, entrambe caratteristiche che sembrano perse nell’asfittico panorama produttivo dei nostri giorni; e se, come Serpico di Sidney Lumet, il film oggi può sembrare in parte datato nel raccontare la corruzione di chi detiene l’autorità, i toni ora grotteschi ora lucidamente spietati dell’interpretazione di Gian Maria Volonté sono da manuale nel tratteggiare un piccolo borghese che nel Potere trova la valvola di sfogo delle proprie frustazioni e delle pulsioni represse: e quando afferma “La repressione è il nostro vaccino, repressione è civiltà”, un brivido corre ancora lungo la schiena, implacabile. Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes ed Oscar per il miglior film straniero nel 1970.

GUARDA IL FILM: Parte 1
Parte 2
Parte 3
Parte 4

venerdì 25 dicembre 2009

Hanson brothers - It's a living (2008)

Nonostante questa band canadese sia poco più di un passatempo per i suoi membri fondatori, i fratelli Wright (già all'opera con i più noti e impegnativi NOMEANSNO), in realtà ha saputo esprimere un punk rock di qualità, apprezzabile soprattutto nelle loro esibizioni live.
Il punto di riferimento sono, guarda caso, i RAMONES, pedissequamente ricalcati almeno per quanto riguarda le musiche. I testi, invece, riflettono la demenza dei musicisti in questione e parlano di hockey su ghiaccio, donne e birra.
Dal vivo sono dei mostri, di bravura e di comicità. Ascoltare per credere.
Gabba gabba hockey!

Tracklist:

01. Tommy Speaks
02. Total Goombah
03. Duke It Out
04. Give Me Anything
05. Third Man In
06. Everything
07. No Emotion
08. Four Heads, One Brain
09. Tommy Speaks Again
10. Stickboy
11. No More Head Cheese
12. Road Pizza
13. We're Brewing
14. My Game
15. 100 and 10%
16. Cabbage In A Bag
17. Tranquil
18. More Tommy
19. Sabrina
20. Comatose
21. Danielle (She don't care about Hockey)
22. We're Bad
23. Joey Had to Go
24. Hockey Song
25. Let's Go Out Tonight
26. Sudden Death
27. Shut Up Tommy

Wrong/Southern records

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Myspace
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Ed - Senza ragione (7") #2009


Attenzione! Materiale altamente infiammabile! Si consiglia caldamente di tenere vicino agli alberi di natale. Ultimo 7" dei furiosi Reno thrashers, che continuano a deliziarci con riffoni e assoli supersonici, già marchio di fabbrica del precedente Nailed to the board. Ottima registrazione, 10 minuti e 4 pezzi: fantastici i due in lingua madre (anche l'insolitamente lungo Genio spastico). 300 copie in tre colori diversi: vi ordino di ordinarlo! Qua.
The Reno knows...

Ed - I proiettili sono più veloci delle parole


Tracklist:

a1. Die trying
a2. I proiettili sono più veloci delle parole

b1. Genio spastico
b2. Handy kicks indie kids

Don't Need records
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Myspace
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Red cross - 6 teen punk anthems

Niente ferma più Buco di cultura. Dalle visioni oniriche al punk rock genuino di una volta il passo è breve ed ecco perchè vi propongo un dischetto niente male targato Posh Boy. Doveva essere il 1980 (se non addirittura il 1979), loro erano i Red Cross (poi diventati Red Kross), vivevano dalle parti di San Francisco e spaccavano allegramente il culetto a molti "colleghi" più blasonati. Enjoy

  1. Cover Band
  2. Annette's Got The Hits
  3. I Hate My School
  4. Clorox Girls
  5. S&M Party
  6. Standing In Front Of Poseur

giovedì 24 dicembre 2009

Rock'n'roll high school




Una chicca natalizia per gli amici di buco di cultura, perchè la santa notte è meno pallosa se condita di rock and roll. Avere i fratellini Ramone nel proprio liceo è stato il sogno di tutti. In culo al preside! Uan tu tri for


  • Titolo: Rock 'n' Roll High School
  • Anno: 1979
  • Genere: Commedia
  • Durata: 93 Minuti
Trama: La scuola Vince Lombardi continua a perdere la dirigenza a causa di continui crolli nervosi, dovuti agli studenti che con la loro dedizione verso il Rock and roll portano alla disperazione i presidi. La leader degli studenti è Riff Randall (P.J. Soles), la più grande fan dei Ramones della scuola. Lei aspetta in fila ad un botteghino tre giorni per poter ottenere i biglietti di un loro concerto, sperando d'incontrare Joey Ramone per dargli un brano che ha scritto, Rock 'n' Roll High School[1].

Quando la preside Togar (Mary Woronov) butta i loro biglietti nella spazzatura, Riff e la sua migliore amica, Kate Rambeau (Dey Young) trovano un altro modo per incontrare i loro eroi, vincendo un contest in radio. Ad un certo punto, la preside Togar insieme ad un gruppo di genitori, fa un atto avventato: dopo il sequestro ai giovani dell'istituto dei loro dischi rock gli dà fuoco.

Questo fatto porta gli studenti ad una rivolta, riuscendo ad ottenere il controllo dell'istituto insieme ai Ramones che sono eletti dagli studenti stessi studenti onorari. La preside poi chiama la polizia, la quale chiede agli studenti di abbandonare l'istituto. Gli studenti obbediscono ma per ripicca provocano un'esplosione all'interno dello stesso.

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The believer


REGIA:
Henry BEAN

PRODUZIONE: U.S.A. - 2001 - Drammatico

DURATA: 100'

INTERPRETI:
Ryan Gosling, Billy Zane, Theresa Russell, Summer Phoenix, Glenn Fitzgerald, Garret Dillahunt

SCENEGGIATURA: Henry Bean
(da un soggetto di Mark Jacobson)

FOTOGRAFIA: Jim Denault

SCENOGRAFIA: Susan Block - Carrie Stewart

MONTAGGIO: Mayin Lo - Lee Percy

COSTUMI: Alex Alvarez - Jennifer Newman

MUSICHE: Joel Diamond


"The Believer" è la storia vera di Danny Balint, ebreo e neonazista. La metamorfosi dell’esistenza del giovane è narrata dal regista Harry Bean. Danny sin da fanciullo ha ravvisato nello studio della Torah (La Legge ebraica: la parola di Dio) una contraddizione: e cioé che la condizione ebraica è destinata (sheol: destino), perché apolide, a soccombere sempre, a vivere quindi di pietismo, e a dover assimilare le coordinate commerciali dei paesi in cui errando passano gli ebrei. A questa schiavitù – a detta di Danny – morale ed esistenziale, Danny reagisce diventando un neo-nazista: partecipa a convegni sino a divenire personaggio di spicco dellla "White Power" americana. Ma quando ritroverà tra le sue mani le parole di Dio, la contraddizione vivente che lui stesso incarna diviene puro sacrificio.

L'intelletto, una marcata sensibilità e l'abilità dialettica possono mascherare la verità a noi stessi e agli altri, sposare la negazione di ciò che amiamo trasportandoci, in un moto romantico, verso la distruzione di ciò che siamo impossibilitati a nutrire. L'odio è ingiustificato ma ha radici ben visibili: l'esordiente Bean (sceneggiatore di AFFARI SPORCHI e NEMICO PUBBLICO) le passa in rassegna in modo provocatorio, rendendole al contempo pericolosamente condivisibili e palesemente assurde. Il "Nulla senza fine" contestato dal suo protagonista (l'ottimo Gosling, gemello dell'Edward Norton di AMERICAN HISTORY X) è quello di un vuoto esistenziale dato dall'astrazione dal contesto che, facilitato dalla paura e la sottomissione, arriva a deificare l'immaterialità degli scambi e il denaro. Tesi: il popolo eletto, senza terra, sradica le genti e le culture con cui viene a contatto e colonizza il modus vivendi occidentale. D'altra parte, l'antisemitismo è un facile strumento per unire nell'odio. L'apologo morale di Bean, però, non tocca solo la questione semita, disquisisce sul Male tout-court, nega che sia un'entità a se stante, in quanto tenebra in assenza di luce, angelo caduto, Lucifero cullato nel Bene, sofferenza sepolta, voce amica e disperata, superba, emarginata, incattivita. La sua riflessione consuma gli ultimi stereotipi sedimentati nella coscienza collettiva, guarda dal di dentro con un espediente paradossale ma emblematico (un ebreo tramutato in perfetto naziskin), ha la sfrontatezza di sgretolare il tabù che ha rimosso il fenomeno dell'odio di razza con la comoda e sterile stigmatizzazione del movimento nazista, cerca l'incontro fra vittime e carnefici, mostra la contraddittorietà del rinnegato in cerca di consenso. Le seducenti argomentazioni di Danny mostrano la corda nel momento in cui cercano la via di fuga nella violenza, tallone d'Achille delle ideologie malsane. Bean accompagna il suo protagonista verso l'espiazione, ma ne registra anche il percorso stoltamente coerente: è un uomo che rifiuta il compromesso e pone domande che, in assenza di risposte assolute, converte in pugni chiusi. Per assurdo, arriva ad incarnare ciò che più odia nella sua razza: il settarismo, il vittimismo, l'intransigenza, la superbia, l'ipocrisia della dicotomizzazione (carne/spirito) che sfocia nella contaminazione. Il Credente Addolorato incarna il percorso umano che, agnostico, "deve" percorrere la Scala al Paradiso, a rischio di trovarlo vuoto.

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Memento

REGIA:
Christopher NOLAN

PRODUZIONE: U.S.A. - 2000 - Thriller

DURATA: 116'

INTERPRETI:
Guy Pearce, Carri-Ann Moss, Joe Pantoliano,
Mark Boone Jr., Stephen Tobolowsky, Callum Keith Rennie, Harriet Sansom Harris

SCENEGGIATURA: Christopher Nolan
(da un romanzo breve di Jonathan Nolan)

FOTOGRAFIA: Wally Pfister

SCENOGRAFIA: Danielle Berman

MONTAGGIO: Jenifer Chatfield

COSTUMI: Cindy Evans

MUSICHE: David Julyan


Leonard Shelby veste costosi abiti firmati e guida una vecchia Jagua, ma vive in economici e anonimi motel che paga in contanti con un rotolo di banconote. Sebbene abbia l'aspetto di un uomo d'affari di successo, il suo unico scopo è la vendetta: trovare chi ha violentato e ucciso sua moglie. Una ricerca resa ancora più difficile dall'incurabile e rara forma di amnesia di cui Leonard soffre: mentre ha alcuni ricordi della vita precedente la disgrazia, gli è impossibile ricordare quello che gli succede quindici minuti prima, dov'è, dove sta andando e perché.


Fotografie, annotazioni, tatuaggi, mappe, targhe, vestiti, armi.
Leonard ha bisogno di oggetti concreti. Per ritrovare l'assassino di sua moglie, ma soprattutto per non naufragare nel mare delle voci, dei pensieri, delle illusioni che assediano la sua mente, il nostro uomo ha deciso di registrare ogni dettaglio, prima che l'amnesia di cui soffre lo costringa a ripartire da zero, ogni quindici minuti.
Sulla carta lo spunto del film è, in un certo senso, degno di Peter Greenaway: la vita come catalogo di elementi eterogenei, il gusto della scrittura, il corpo come volume del mondo. Ma non c'è traccia, nel film, del gioioso "enciclopedismo barocco" dell'autore dei Racconti del cuscino: il catalogo non è esaltato, anzi.
Strutturato come un canonico "thriller di vendetta", Memento chiama in causa tutti gli stereotipi (i "fatti") del caso e si diverte a metterli alla prova, tentando di evidenziarne la fragilità, o almeno la natura puramente convenzionale. Si alza il sipario, ed ecco il detective solitario, l'ignoto assassino, l'amico che gli fa da "spalla", la bella di turno: le maschere di genere reggono ancora benissimo. Per infrangerle definitivamente, il regista alza il tiro: non è più sotto inchiesta solo il noir, ma l'intera narrazione cinematografica.
A parte illuminanti eccezioni (Lynch, il Tarantino di Pulp Fiction), tutti (spettatori e, quel che è più grave, registi e sceneggiatori) sembrano dare per scontato che un film debba procedere "dall'inizio alla fine", cioè dall'evento cronologicamente più lontano a quello più recente: in questo quadro i flashback sarebbero l'eccezione che, non si sa come, conferma la regola.
Christopher Nolan, sagacemente, parte dal genere cui è permesso usare ed abusare di tali espedienti "eccezionali" per scardinare l'idea stessa di tempo "regolare", concependo il suo film come un ininterrotto flashback, a sua volta collegato ad un monologo telefonico del protagonista, impegnato in una (ulteriore) rievocazione. (Fra parentesi, l'interminabile telefonata ricorda La voce umana di Cocteau, anche nell'avversione provata da Leonard per il mezzo di comunicazione che è costretto ad usare.)
Man mano che la storia va avanti (o meglio, indietro), le maschere si sgretolano, i sipari si dissolvono, si affaccia la verità. Ma quale verità? Che senso ha parlare di "reale", di "fatti", di "verità" in un mondo che non esiste se non nella nostra mente? Se siamo noi a dare continuità al mondo, non in virtù della nostra personalità (o della memoria) ma della nostra percezione, istante per istante, allora non ha senso distinguere tra passato e presente, vero e falso, fatto e sogno (o menzogna).
"Io dico di amare e mi si crede", afferma la protagonista dell'ultimo film di Chabrol. La vertigine suprema non è la perdita di memoria, o l'impossibilità di ricordare un particolare evento, ma la capacità di falsificare consciamente la nostra percezione del mondo e, poi, dimenticare di averlo fatto. Lo ha capito e messo in scena John Carpenter, nel magnifico Seme della follia: non ci sono mostri più spaventosi di quelli creati dalla nostra mente, perché non possiamo difenderci da noi stessi. Per quanto siano "reali" i fatti, è l'interpretazione a vincere la partita.

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Anche i NANI hanno cominciato da piccoli




Attori:
Helmut Doring, Gerd Gickel, Paul Glauer
Registi:Werner Herzog
Casa Distribuzione:CECCHIGORI
Sottotitoli:Italiano
Lingua Doppiaggio:Tedesco
Produzione italiana:No
Durata:96
Anno Produzione:1970
Vietato ai minori:No
Formato Video:
Formato Audio:STEREO
Area DVD:2


Come in Viale del tramonto così in Auch zwerge haben klein angefangen, il film inizia a cose già fatte; dalla fine. Ma il parallelo si spegne qui. Se nel primo il protagonista è annegato in piscina e – ciononostante – racconta com’è successo; nel film di Herzog non abbiamo un unico protagonista, ma un primus inter pares: Hombre, arrestato, è chiuso in una stanza e si aspetta che confessi. Non è il protagonista del film, eppure resterà nella memoria dello spettatore… Lui ed altri complici sono tacciati dei seguenti reati: rivolta e sequestro di persona. Ed ecco che parte il flashback. Pepe è rinchiuso in un piccolo edificio con un disperato educatore che chiede aiuto mentre, all’esterno, gli amici di Pepe organizzano una vera e propria sommossa per penetrare all’interno e proclamare disordine ed anarchia.
Il giovane Herzog realizza un film perfettamente in sintonia con quella che sarà la sua poetica, diluita negli anni e in tanti film, non scindibile da un fenomeno indiscutibile: è matto. Era e lo sarà anche adesso. In quest’affermazione c’è l’affetto di un estimatore del suo cinema: non si tratta di sola impressione, Herzog l’ha ammesso e Kinski l’ha confermato. Certamente tra i due è difficile scovare un po’ di ridente sanità mentale, certo un documentario strepitoso come Il mio nemico più caro può facilitare la cosa: dopo vicende più bizzarre degli stessi film herzoghiani, i due si incontrano per una rassegna stampa e si dicono a vicenda “No, è lui il più matto”. Alla fine arrivano ad un compromesso: è Herzog. Certo, vedendo il film in questione i dubbi rimangono.
Ponendo che Kinski in quest’occasione abbia detto il vero, tutto è reso più facile e comprensibile.
Il regista di Il paese del silenzio e dell’oscurità e Cobra verde non rinuncia ad un aspetto stabile della sua personalità: l’estremismo. Un estremismo dopotutto produttivo, che sfocia nell’arte in grottesco, la vita privata non ci riguarda. E sono i film come questo che mettono alla prova quegli spettatori onesti che si consolano col vivo desiderio di scoprire chi è capace di parlare una lingua diversa ma con parole note a tutti.
Altra parola chiave che viene in mente quando si parla di Herzog è sensibilità. Verso gli spettatori, verso gli attori, verso la storia che viene raccontata. Che essa sia una parabola o un semplice mosaico di ricordi. Come conciliare il rude estremismo e la sensibilità? Herzog non rinuncia a vivere rudemente per mettere in scena la delicatezza di certe immagini, viceversa trasforma argomenti terribili in sottili trame visionarie (il tema dell’immortalità in Nosferatu).
Anche i nani hanno cominciato da piccoli è un film rude in quanto è molto lontano dal perfezionismo di stampo hollywoodiano, estremo perché le scelte stilistiche lo sono, a partire dalla trama di base ossia un mondo abitato da “diversi”, e qui si aprono molte strade sarebbe bene tralasciare per non perdersi. La sensibilità è sopita ma c’è: la vestizione degli insetti per esempio è un’oasi di ludico ritorno all’infanzia, dove le bambole son sostituite da grilli e farfalle. Tutti intorno ad un carillon di minuziosi vestiti, una sfilata di moda tinta di venature horror. Il bianconero in questo senso diviene quasi obbligatorio: se Freaks non è il modello dichiarato, ne è padre putativo.
E in Freaks il tema del “diverso” era dominante, perché si opponeva ai normali e ne sottolineava un’inevitabile collisione: qui non ci son diversi e non ci sono normali, o meglio: l’unica differenza – che presuppone un conflitto – è tra esseri umani e l’ambiente in cui tentano di sopraffarsi e che tendono a voler sopraffare.
Una sequenza esemplificherà questa tesi: l’educatore riesce a fuggire, mentre sfocia alle sue spalle il caos più insulso: corre via lontano dalla “civiltà” impazzita e si arresta di fronte ad un arboscello rinsecchito. Sembra che questi con uno dei suoi rami indichi qualcosa di indefinito. Forse alza il suo braccio semplicemente perché gli va: è un’interpretazione favolistica ed è appunto questa che sposa il piccolo uomo. “Brutto porco! Abbassa quel braccio!”, dice. Nasce una sfida. “E va bene, allora anche io alzo l’indice verso di te!” continua l’omino. “Vediamo chi resiste di più”.
È un’allegoria semplice ma delicata.
L’estremismo di Herzog ha una moralità che non tradisce mai: non si abbassa a disgustare lo spettatore. Eppure il suo cinema non è fatto di rose e fiori, si insinua in mondi irti e difficili da analizzare, sia che adotti lo stile documentaristico che la finzione, non rinuncia al fascino: un dono che hanno i poeti e i grandi narratori. Specie se non di solo fascino si issano.
Hombre, si diceva a inizio pagina. Il primo ad apparire nel film, nei titoli di testa, in un’immagine non del tutto casuale, la prima in assoluto. Si noti la simmetria insistita della stanza. Due finestre speculari, annesse alle quali due ante anch’esse simmetriche fra loro. Ed il pavimento, con le linee delle mattonelle che si incontrano in un punto di fuga centrale: è qui che sta Hombre, seduto su una sedia troppo grande, con le gambette che penzolano in aria. La diversità è accennata in questo, da subito: la stanza è troppo grande, la sedia troppo alta. Quando si affaccia alla finestra, pochi secondi dopo, si vede un panorama con dei grattacieli. Più in alto degli alberi, al di sotto delle montagne. Potrebbe essere la posizione da cui Herzog guarda questo mondo di piccoli ometti frenetici, dall’alto appunto, una visione mitizzata e alterata. Perché rappresenta una scenografia a misura d’uomo, ma non dell’uomo presente nel film: i nani del titolo sono gli unici esseri viventi in questo microcosmo, che micro alla fine non è. Anzi: non sono loro ad essere piccoli è proprio il mondo che è troppo grande. Per loro. Che non è su misura come a Hollywood, nemmeno il mondo troppo piccolo per la scienza * – l’anno è lo stesso dello sbarco sulla Luna – in confronto all’Universo, ma forse per la prima volta al cinema: troppo grande. E non per disavventure fantascientifiche – protagonisti rimpiccioliti come in Radiazioni BX di Arnold, 1957…
Basti vedere la sequenza in cui gli attori chiudono scherzosamente Hombre e un’altra nanetta in una stanza da letto perché vogliono che si “sposino” e Hombre non riesce nemmeno a salire sul letto – non solo incapaci di affrontare la Natura, ma vittime di una propria creazione, la più banale, un letto troppo alto.
Non mancano le scene divertenti, oltre quella appena citata, l’immancabile Hombre rimane impresso allo spettatore per la sua memorabile, peculiare risata. La prima sequenza da citare è quando, in piedi fra dei barili, ride sguaiatamente movendosi come un bambolotto al ritmo di “ah ah ah! Polizei!”. Da rivedere all’infinito. Specie quando lo spettatore attento noterà che un’attrice non finisce una frase a causa proprio di una risata contagiosa dell’omino appena citato. Fosse solo questo. Il finale: caotico, rivoluzionario, irreale ha un perno principale di ineffabile bellezza.
Il nano Hombre che ride di un cammello.

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mercoledì 23 dicembre 2009

Re-animator


Fotografia: Mac Ahlberg
Montaggio: Lee Percy
Musiche: Richard Band
Produzione: EMPIRE PICTURES
Distribuzione: ARTISTI ASSOCIATI (1986) - DOMOVIDEO
Paese: USA 1985
Genere: Horror
Durata: 82 Min
Formato: Colore NORMALE A COLORI


Fanatico seguace del dottor Gruber - uno scienziato di Zurigo morto nel corso dei propri allucinanti esperimenti sui cadaveri - il dottor Herbert West, suo giovane allievo, si trasferisce in un ospedale americano dove conta di perfezionare la scoperta del suo maestro (un "siero" che, iniettato nella regione occipitale di una persona deceduta da pochi minuti, riesce a ridare la vita). West, divenuto compagno di appartamento di Dan Cain, laureando in medicina e borsista presso lo stesso ospedale (ed anche lui interessato ai problemi della rianimazione) è mal visto dal professor Carl Hill, primario del reparto e specialista in lobotomie. Lavorando da solo West aggiorna il metodo Gruber e, con l'aiuto del giovane Dan, nella "morgue" dell'ospedale riesce a rianimare alcuni cadaveri i quali improvvisamente divenuti aggressivi, uccidono il sopraggiunto direttore dell'ospedale, il dottor Dea Halsey, padre di Megan, la fidanzata di Dan. Immediatamente sottoposto al "siero" il dottor Halsey viene rianimato ma impazzisce: su richiesta di Megan, della quale il professor Hill è segretamente innamorato, questi lo sottopone a lobotomia. Successivamente, durante un alterco con West (al quale aveva tentato di sottrarre i preziosi appunti sul "siero") il professor Hill rimane decapitato: sottoposti sia la testa sia il tronco al "siero", entrambi - anche se separati - vengono rianimati a tal punto da consentire alla testa del professor Hill di impartire al proprio tronco ogni tipo di ordine compreso quello di impadronirsi di Megan e sottoporla alle proprie brame amorose. Ma un'improvvisa rivolta di alcuni cadaveri rianimati crea il caos durante il quale trovano la morte il dottor West, il professor Hill, il dottor Halsey e la stessa Megan. Disperato, Dan tenterà di rianimare Megan iniettandole il "siero".

Esordio dietro la macchina da presa per un regista che, grazie soprattutto a Brian Yuzna nelle vesti di produttore, realizza il suo miglior film nonché una pietra miliare del genere splatter. Fiumi di sangue e brandelli di carne, infatti, rendono questo film un vero cult per appassionati del cinema anatomico, ispirato tra l’altro ad un racconto dello scrittore Howard Philip Lovercraft, Herbert West – Re-animator. Mantenendo alcuni degli aspetti classici del genere (il carattere dei due scienziati pazzi, il laboratorio nascosto, il crescendo delirante) il regista opera una sorta di altrettanto febbricitante modernizzazione della figura del dottor Frankenstein, dove a sfidarsi sono in due, ed i cui ruoli si scambiano spesso in un gioco di continuo rimando che culmina nella scelta da parte di Daniel (che sembrava aver preso le distanze da Hill e West) di continuare con il siero. Il film in quanto tale dunque non è malaccio, si apre e si chiude in maniera circolare (a parte il breve prologo in Svizzera), è girato con parecchi soldi alle spalle (sia negli ottimi effetti speciali che nelle possibilità visive, piene di carrelli e dolly), ma ha una struttura narrativa arrabattata e frettolosa, arricchita di soluzioni provocatorie che lo rendono ancor più confuso e delirante (la tentata violenza di Hill su Megan per esempio). Più vicino alle corde del successivo Bad taste (1987) del neozelandese Peter Jackson, con il quale apre le porte all’horror più truculento, volgare e grottesco, che a quelle di precursori cui lo stesso film sembra a volte rivolgersi, come George A. Romero o Roger Corman. Per certi versi, la struttura narrativa sembra essere stata ripresa completamente dal film Cimitero vivente (1989) di Mary Lambert, sceneggiato dallo scrittore Stephen King: dal gatto ai morti viventi, attraverso un crescendo isterico e truculento, in nome della vita oltre la morte.

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Il settimo sigillo


Titolo originale: Det sjunde inseglet
Nazione: Svezia
Anno: 1956
Genere: Drammatico
Durata: 95'
Regia: Ingmar Bergman
Sito ufficiale:

Cast: Gunnar Björnstrand, Bengt Ekerot, Nils Poppe, Max von Sydow, Bibi Andersson, Inga Gill
Produzione: Allan Ekelund
Distribuzione: Twentieth Century Fox

La pellicola inizia con una frase tratta dall'Apocalisse di San Giovanni:


« Quando l'agnello aperse il settimo sigillo nel cielo si fece un silenzio di circa mezz'ora e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe »

(Apocalisse, 8,I)

In una Danimarca dove imperversano peste e disperazione - vengono nominate Roskilde ed Elsinore - torna dalle crociate in Terra Santa il nobile cavaliere Antonius Block. Sulla spiaggia, al suo arrivo, trova ad attenderlo la Morte, che ha scelto quel momento per portarlo via. Il cavaliere decide di sfidarla a scacchi. La partita si svolge nel corso di vari incontri tra Block e la Morte.

Durante la partita, Antonius ed il suo scudiero Jons, attraversando la Danimarca, incontrano molte persone, le quali, prese dalla paura della morte, si sottopongono a violente pratiche per l'espiazione dei propri peccati, ed altri che inseguono gli ultimi piaceri prima della fine.

Il cavaliere s'imbatte anche in una famiglia di saltimbanchi, che sembrano non accorgersi della tragedia che li circonda, uniti solo dall'amore reciproco e da un sincero rispetto. Questo incontro aiuterà Antonius a ritrovare la fede e l'unione con Dio. Allora egli accetta di morire sacrificandosi per la coppia di innamorati.


Siamo presumibilmente nel XIV secolo, Antonius Block sta ritornando col suo scudiero dalla crociata in Terra Santa ed incontra un personaggio alquanto misterioso: ha il volto estremamente pallido ed è vestito di un mantello e di un cappuccio scuri. "Chi sei?", gli chiede il cavaliere. E il personaggio risponde: "Sono la morte." La Morte è venuta a prendere il cavaliere, ma in cambio di una partita a scacchi questi riesce ad ottenere una dilazione al compimento del suo destino. La Morte giocherà come le si addice con i pezzi neri, e perciò il cavaliere avrà il vantaggio della mossa.
La partita incomincia: dopo aver spostato il primo pezzo, i due si lasciano ed il cavaliere raggiunge il suo scudiero. Entrambi riprendono il cammino verso casa, ma sul percorso li attende l'epidemia della peste. Passano davanti a un carrozzone di attori girovaghi e, mentre gli occupanti si risvegliano dal sonno, i due proseguono senza badare loro per la propria strada. Si tratta di due uomini, di una donna e un bambino: Skat, Jof, sua moglie Mia e il loro figlio, Mikael, il cui nome richiama quello dell'Arcangelo Michele, ed un altro passo dell'Apocalisse di Giovanni (12, 7). Mia e Jof discutono del futuro del loro figlio: "Voglio che Mikael abbia una vita migliore della nostra", dice la donna. E Jof le assicura: " Mikael diventerà un grande acrobata, o un giocoliere che riuscirà a fare il numero più incredibile … Far rimanere una palla immobile in aria." Intanto, il cavaliere ed il suo scudiero hanno raggiunto una chiesa dove incontrano un pittore che sta affrescando una Danza Macabra.

Bisogna qui osservare un anacronismo. In realtà, il soggetto della Danza Macabra è posteriore di qualche decennio alla diffusione in Europa della peste nera. Esso si afferma intorno al XV secolo e deve la propria origine alla rappresentazione dei Misteri religiosi messi in scena davanti alle chiese. L'aggettivo di macabra attribuito alla Danza della Morte è invece da ricercare in una poesia del 1376, composta da Jean de Lèvre dopo l'epidemia di peste che aveva imperversato a Parigi due anni prima: "Je fis de Macabré la danse…", scrive l'autore scampato miracolosamente alla malattia. E Macabré è forse il nome proprio di qualche poeta o attore. Il soggetto della Danza Macabra che è legato al pensiero apocalittico-millenaristico era comunque malvisto dalle autorità dell'epoca, in quanto rifletteva il pensiero secondo cui davanti alla morte tutti gli uomini tornavano ad essere uguali.

Nella chiesa dove il pittore affresca la Danza Macabra, Antonius Block si apparta vicino ad un confessionale. Indotto a credere di parlare con un prete, chi ne ascolta i più intimi segreti dell'anima è invece la Morte, che riesce così a farsi dire quale sarà la sua strategia di gioco. I pezzi degli scacchi rappresentano l'immagine di una società tradizionale, o più estensivamente l'immagine di un mondo, dove luce e tenebra, il bianco e il nero della scacchiera, corrispondono alla duplice condizione dell'Essere nello stato di manifestazione e di non manifestazione: Arjuna e Krishna, l'io e il Sé, il mortale e l'immortale.
Le moderne regole degli scacchi sono state fissate intorno al XV secolo. Nonostante la partita di Antonius Block con la Morte si svolga nel XIV secolo, si tratta di una partita interamente moderna in cui si sentono vagamente riecheggiare alcuni motivi che sono propri dell'esistenzialismo di Heidegger: " Voglio parlarti il più sinceramente possibile, ma il mio cuore è vuoto - dice il cavaliere alla Morte - Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura. Per la mia indifferenza verso il prossimo mi sono isolato dalla compagnia umana. Ora vivo in un mondo di fantasmi, rinchiuso nei miei sogni e nelle mie fantasie." Lo stesso problema religioso assume un significato esistenzialistico, e la dimensione di Dio a cui si riferisce Antonius Block più che religiosa è ontologica: " E' così crudelmente impensabile percepire Dio con i propri sensi? Perché deve nascondersi in una nebbia di mezze promesse e di miracoli che nessuno ha visto?" - dice il cavaliere, che prima di morie vuole delle "garanzie", dalla Morte. E così prosegue: " Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me in questo modo doloroso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto, continua ad essere una realtà illusoria da cui non riesco a liberarmi … Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli … Lo chiamo nelle tenebre, ma a volte è come se non esistesse. " " Forse non esiste" , gli replica la Morte. E il cavaliere risponde: " Allora la vita è un assurdo errore. Nessuno può vivere con la Morte davanti agli occhi sapendo che tutto è nulla." E il cavaliere non manca neppure di far riferimento al tema dell' "esistenza inautentica": " La mia vita è stata vuota, l'ho passata ad andare a caccia, a viaggiare, a parlare a vanvera di cose insignificanti. Lo dico senza amarezza né rimorso, perché so che la vita della maggior parte della gente è così." Ma ora Antonius Block vuole compiere "un'ultima azione che abbia un senso": la sua partita a scacchi con la Morte.
Fuori dalla chiesa, s'imbatte in alcuni soldati che mettono in ceppi una strega. Riprende il cammino e, giunto nei pressi di un gruppo di abitazioni, il suo scudiero s'incammina alla ricerca di un pozzo dove rifornirsi d'acqua. In una delle case incontra Raval, che sta derubando una povera vedova. Lo scudiero lo riconosce: è lo stesso uomo che diversi anni prima aveva indotto il suo padrone ad abbracciare la causa della crociata. Lo mette in fuga e quindi invita la vedova ad unirsi a lui ed al cavaliere. Nelle vicinanze di una locanda, Skat, Mia e Jof stanno rappresentando una commedia. L'argomento riguarda l'infedeltà di una donna e la gelosia del marito. Ben preso la farsa si trasforma però in un episodio "reale", con Skat che prende la fuga con la moglie del fabbro Plog. Si tratta di una commedia nella commedia e ancora una volta, come nel caso degli scacchi o della Danza Macabra nei Misteri, di una rappresentazione simbolica: il teatro è un'immagine del mondo che a sua volta è un'immagine della manifestazione dell'Essere.
La commedia inscenata dagli attori girovaghi cessa bruscamente all'apparire di una processione di flagellanti che annunciano con la loro presenza l'arrivo dell'epidemia pestilenziale. Nella vicina locanda, il cavaliere chiacchiera col suo scudiero, il fabbro Plog va alla ricerca di sua moglie, ed altri ospiti discorrono sul Giudizio Universale e sui segni che ne costituiscono l'annunzio. Fa la sua comparsa anche Raval che istiga il fabbro contro Jof, mentre a non molta distanza dalla locanda il cavaliere si trova presso il carrozzone degli attori e parla con Mia. Sopraggiunto Jof, il cavaliere propone loro di attraversare la foresta durante la notte, viaggiando in direzione opposta al percorso lungo il quale si sta diffondendo la peste. Il cavaliere riprende la partita a scacchi con la Morte.
A sera, gli attori, Antonius Block ed il suo scudiero si riuniscono alla locanda, dove si aggrega a loro anche Plog. Calata la notte, s'inoltrano nella foresta ed incontrano un corteo di soldati che conducono al rogo la strega veduta il giorno innanzi dal cavaliere davanti alla chiesa. Al limite della foresta, la compagnia incontra anche Skat e la moglie del fabbro, che subito si avventa contro il rivale. Questi, per salvarsi, finge il suicidio con un pugnale da scena. Lascia che tutti si allontanino e quindi si arrampica su di un albero per riposarsi un poco. Risvegliato dal rumore di una sega, si accorge di essere al cospetto della Morte, che sta tagliando l'albero su cui si era rifugiato: il suo tempo è scaduto.
Segue l'incontro con Raval. Colpito dal morbo pestilenziale, giace pure lui nei pressi di un albero abbattuto. Intanto, il cavaliere riprende la sua partita a scacchi con la Morte, che improvvisamente si rende manifesta anche a Jof. Questi allora prende con sé la moglie ed il figlioletto, e si allontana dal gruppo fuori dalla foresta. Accortosi della loro partenza Antonius Block può finalmente perdere la partita: è riuscito ad ingannare la Morte per il tempo sufficiente a permettere la salvezza dei due attori e del piccolo Mikael.
L'indomani Antonius Block raggiungerà il proprio castello dove ritrova la sua sposa, oramai invecchiata. Il loro destino e il destino dei suoi amici si compie. Lontano, Jof racconta alla moglie di avere avuto una visione: la Morte trascina con sé in una danza il cavaliere, lo scudiero Plog sua moglie e tutti gli altri, e in fondo al corteo c'è Skat, il giullare, "la pioggia cade sui loro volti e lava le loro guance dal sale delle lacrime."
Jof e Mia sono salvi e forse, un giorno, Mikael potrà fermare il tempo, sconfiggere il serpente antico e contemplare l'Essere nella sua fissità eterna, come una palla immobile nell'aria.


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Berlinguer ti voglio bene (ciao duca!!)


Fotografia: Renato Tafuri
Produzione: A. MA FILM
Distribuzione: EURO
Paese: Italia 1977
Genere: Commedia
Durata: 90 Min
Formato: Colore PANORAMICO COLORE

Mario Cioni è un sottoproletario, prigioniero della figura della mamma dalla quale non riesce a staccarsi (quasicché fosse in preda a complesso edipico) e schiavo di una società miserabile dalla quale subisce modelli di comportamento, sfruttamenti e ideologie. Le sue ribellioni sono soltanto verbali e non redimono le sue molte inibizioni e frustrazioni. Anche il sesso, onnipresente nel suo linguaggio e nelle sue fantasie è una sorta di inutile rivalsa: quando Marte ed Ester gli danno un passaggio e dimostrano di essere due ragazze emancipate e pressoché "a portata di mano", il Cioni usa timidamente il "lei" e tutto finisce lì. I compagni alla balera gli fanno lo scherzo di chiamarlo a casa per la morte della madre e lui rimane folgorato. A causa di un debito di gioco, l'amico Puzzone pretende fare l'amore con la madre: nasce l'affiatamento, forse l'amore. Mario recalcitra, ma forse accetta la nuova realtà.

Nella sua casa sull'Appennino Giuseppe Bertolucci ospita Roberto Benigni. Per 5 giorni si chiudono in una stanza. Le pareti sono tinte di rosa, la porta-finestra offre il verde di un grande prato in salita. Benigni parla, Bertolucci ascolta. Ascolta e scava, e raccoglie. Benigni è una miniera inesplorata, una eruzione linguistica, un "flusso di ossitone e di tronche". Bertolucci scopre un mondo: "l'universo suburbano della provincia toscana, rossa, contadina, sottoproletaria e genitale". E' il mondo di Cioni. Un anno più tardi, dicembre 1975, Roberto porta il monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia in teatro (l'Alberichino), a Roma. Nel 1977 esce il film Berlinguer ti voglio bene

Attenzione: alcune battute contengono un sacco di parolacce.

E’ l’ARANCIA MECCANICA becera nostrana, VM 18 per i turpiloqui che la contraddistinguono, insieme a bestemmie, squallore sessuale e dissacrazioni varie. Come nel film di Kubrick, l’oscenità non è gratuita ma sintomo di una condizione di malessere, espressione viva di un sottoproletariato contadino/provinciale senza soldo e fica, incazzato e messo alle corde, abbandonato dal cinema dopo Pasolini (padre putativo della pellicola). Il fratello minore di Bernardo e il comico toscano Benigni esordiscono al cinema con un feroce ciclone nella stantia produzione italiana e l’alchimia è memorabile: irrefrenabile, volgarissimo, sconclusionato Benigni; più lirico, portato a dare senso Bertolucci, abile nell’incanalare questa forza della natura senza erigere argini troppo alti, lasciandola libera di esprimere la sua geniale trivialità. A Bertolucci si deve il merito di aver valorizzato per primo quella che diventerà una gloria nazionale (più edulcorata): per lui scrisse, nel 1975, il monologo "Cioni Mario fu Gaspare di Giulia" con il personaggio che approdò in Tv ("Onda Libera", 1976) e qui al cinema. La giustapposizione stravagante di due personalità opposte diventa anche stilema cinematografico: in apertura, Bertolucci parte con un carrello in avanti e osserva divertito i manifesti cinematografici di una provincia innamorata dei soft-core, gioca di classe con l’equivoco di un vecchietto che spara, compone una raffinata comicità surreale, osserva gli astanti con passo ponderoso ed illuminante; poi irrompe Roberto, squarcia la tela con "Cacca, piscia e merda". I due si riconciliano con il carrello, stavolta all’indietro, che vede uscire il protagonista e poi, lateralmente, lo segue in un infinito sproloquio di sozzerie incredibili che chiosano l’amara poesia dell’opera. Mentre Cioni continua a parlare di seghe, alle prese con una mamma asfissiante, ammiratore del Berlinguer-spaventapasseri (celebre il vero incontro fra Benigni e Berlinguer al festival dell’Unità, quando il primo tentò di prendere il secondo in braccio), imitatore assatanato di Charlot (la sequenza muta in cui canzona la zoppa), il regista sciorina allusioni politiche, sociali e religiose con la Casa del Popolo, il femminismo, il parallelo fra prima masturbazione spontanea e Comunismo (entrambi indicano la via, poi c’è da godere!), l’asserzione che Dio esiste solo per i felici e il romanticismo è impossibile nei bassifondi (la poesia d’amore declamata alla madre con il sottofondo di un latrato di cani). Encomiabile il coraggio di Alida Valli nell’aver accettato il ruolo: Bertolucci e Benigni non si preoccupano certo di trombare anche la mamma: se il cazzo chiama!

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Monty Python e il sacro Graal


Fotografia: Terry Bedford
Montaggio: John Hackney
Musiche: Dewolfe
Produzione: PYTHON (MONTY) PICTURES LIMITED, MICHAEL WHITE PRODUCTIONS, NATIONAL FILM TRUSTEE COMPANY
Distribuzione: PAC
Paese: Gran Bretagna 1975
Durata: 91 min
Genere: Commedia, Fantasy, Avventura

Nell'anno 1193, in Inghilterra, re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda partono alla ricerca del Santo Graal, della coppa, cioè, nella quale Giuseppe d'Arimatea raccolse le ultime gocce del sangue di Cristo. Percorrendo monti e valli, passando di castello in castello, in groppa a cavalli... inesistenti (sono gli scudieri a imitarne il rumore degli zoccoli) i sei ardimentosi devono vedersela con giganti a tre teste, pulzelle vogliose, streghe e maghi, bellicosi guerrieri e castellani iracondi. Quando, finalmente, Artù e i suoi Cavalieri si accingono ad assaltare il castello in cui suppongono sia custodito il Graal, finiscono invece nelle mani della... polizia, accusati dell'uccisione dì uno storico che commentava la loro leggenda.

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Motorpsycho!


Titolo Originale: MOTOR PSYCHO

Regia: Russ Meyer

Interpreti: Holle K. Winters, Stephen Oliver, Alex Rocco, Haji

Durata: h 1.21
Nazionalità: USA 1965
Genere: drammatico

In una cittadina di provincia, arrivano tre delinquenti in motocicletta e cominciano a spadroneggiare picchiando, rubando e violentando, finchè una coppia di vedovi non rimette le cose a posto a colpi di bombe a mano.

E’ un film fatto di sensazioni forti, violente, trasgressive. La morale e l’etica civile, vengono scavalcalcati a piedi pari, in una vicenda che mette in mostra un frammento di un’America violenta,immorale, priva di punti di riferimento. La violenza, lo stupro, l’omicidio, vengono commessi da tre giovani, senza esitazione ne timore e questo puo’ ricordarci un’altra pellicola altrettanto nota, “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrick. Infatti l’apatia e l’indifferenza con cui vengono commesse certe efferatezze spaventa l’osservatore: Uno dei giovani ascolta costantemente una radiolina che trasmette rock’n roll pure mentre e’ in corso uno stupro. Durante il film veniamo a sapere anche che uno dei giovani, il piu’ violento, e’ un reduce dal Vietnam e quella e’ indubbiamente una grande critica che il regista ha fatto alla grande guerra americana allora in corso in Vietnam.
Girato da Russ Meyer nel 1965 e’ ancora un film attualissimo e forse lo diviene sempre di piu.


In un film che può apparire mera exploitation, Meyer ci mette una bella analisi sulla tendenza alla violenza nella società USA. Buon ritmo, deliziosa colonna sonora e attrici splendidamente poppute, anche se molto meno discinte rispetto ai suoi successivi lavori. Raccomandato.

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Koyaanisqatsi


Sceneggiatura: Godfrey Reggio
Fotografia: Ron Fricke
Musiche: Philip Glass
Produzione: GODFREY REGGIO
Distribuzione: IMC (1984)
Paese: USA 1983
Genere: Allegorico, Documentario
Durata: 80 Min

Quando gli Hopi - una antichissima tribù di pellirossa dell'Arizona - pronunciano in un contesto di profezie la parola "Koyaanisqatsi" che vuol dire "la vita senza equilibrio", intendono riferirsi agli squilibri e follie di una vita in via di degradazione, alla quale necessita un nuovo stile. Ispirandosi a un tale concetto, questo film (che film però è al tempo stesso un vero e proprio documentario) mira a raffrontare la maestà della natura - terre, mari, cieli - là dove essa è ancora incontaminata, con le precarie e spesso assurde realizzazioni della umanità di oggi, disancorata dai valori più essenziali e, appunto, naturali, lanciata in una corsa demenziale verso il consumismo, l'automazione, le conquiste tecnologichee, forse, la propria stessa fine. Immagini naturali e urbane si suggeguono in un montaggio ora accelerato ora rallentato, ritmato dalla musica che svolge un ruolo chiave.

Primo film della trilogia “qatsi” ad opera del regista Godfrey Reggio. Uscito nel 1982, introdurrà a seguire Powaqqatsi e Naqoyqatsi, entrambi installati sulla prospettiva tematica del primo, attraverso chiavi di lettura allargate. Si tratta di un esperimento estetico. Nulla di più impegnativo per una scelta cinematografica che non prevede né trama, né personaggi ma si sviluppa lungo un viaggio altamente simbolico in cui immagini e musica promettono una sintonia essenziale e continua tra lo spettatore e il messaggio-specchio che ne deriva. Il titolo, in prestito dalla lingua hopi, significa “vita in tumulto” e rimanda al rapporto uomo-natura dagli albori allo sviluppo della moderna tecnologia.

Le musiche di Philip Glass, presenti in tutta la trilogia, tessono perfettamente il binomio suono/immagine, favorendo la fruizione di un percorso acritico e subliminale cui l’uomo prende parte soltanto alla fine. Dal potere della natura che vede sorgere paesaggi impervi in una solitudine senza occhi al potere dell’uomo che argina, disfa e modella la “divina Indifferenza”, direbbe Montale. La forma scabra e indisciplinata della physis si trasforma in vertiginosa architettura da grattacielo: la correzione precaria di uno sbaglio oggettivo che è quello dell’esserci. Il documentario procede senza giudizio e senza domanda. Non esiste il CHI. Non esiste l’evento. Esiste una materia che tenta di adeguarsi ad una forma, più possibile universale. Un “poema per immagini”, così come venne definito, a cerchi concentrici, in cui lo spettatore è giocato alla Gadamer dallo stesso gioco estetico: principio primo dell’opera d’arte. L’incipit da genesi biblica si trasforma in un climax nevrotico d’immagini accelerate di cui il tempo non è più padrone.

Koyaanisqatsi è uno scacco al tempo, una voragine erotica dall’amplesso autodistruttivo. Tecnologia è già natura. Visto dall’alto, un parcheggio è un tappeto colorato, le luci delle auto notturne si tramutano in acrobazie astratte, un palazzo che crolla, carta stropicciata. L’intento di Reggio non è una denuncia ma un’esclusiva ricerca di bellezza e d’ inquietudine allo stesso tempo. Bellezza estetica e angoscia esistenziale. Quest’ultima emerge tra le facce senza personaggio, tra visi inquadrati nel mezzo della storia.

Facce che non chiedono, né rispondono ma sostano sospese sul “tumulto vitale“. Lo stupore del niente. Eppure, al di là del bene e del male, il progresso e le unghie graffiano i vetri: il razzo decolla, aspira tenace, resiste e poi scoppia.

Koyaanisqatsi è un esercizio di morte circolare: la salvaguardia della struttura economica riversata nella frenesia di un sistema cittadino, mondiale, universale. Un ciclo che si ripete in cui il particolare “desidera” l’universale se e solo se è pervaso dal linguaggio musicale che, per sua stessa natura, suggerisce la salvezza tramite rappresentazione.

Poiché ciò che non è rappresentabile genera terrore, esercitarsi a morire significherebbe prendersi cura dell’angoscia e farne Arte. In tal modo l’abisso tra uomo e natura non avrà più modo di esistere e il tumulto sarà l’umana parvenza della quiete.

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martedì 22 dicembre 2009

Akira


Genere: ANIMAZIONE
Durata: 124 min
Prodotto nel 1988 da Ryohei Susuki, Shunzo Kato

Siamo nella Nuova Tokyo del 2019. Quella vecchia, per la cronaca, è stata coventrizzata a seguito della Terza Guerra Mondiale conclusasi nel 1988. Nuova Tokyo è una sorta di Babilonia veterotestamentaria, una città allo sbando, mal governata e lasciata a sé stessa, in cui i giovani non trovano di meglio da fare che organizzarsi in bande di centauri e scorrazzare qua e là, in una lotta continua fra gang, e in cui i gruppi di rivoluzionari tentano in ogni modo di modificare lo status quo. Fra le varie bande di giovani motociclisti c’è quella capeggiata da Kaneda, in continua lotta con i rivali Clowns. Compagno di Kaneda è la mascotte Tetsuo, il più giovane del gruppo, in sostanza il classico sfigato, un po’ succube del carisma del capetto e
inconsciamente insofferente per questa situazione.

Le cose cambiano quando Testsuo si imbatte in uno strano bambino dal volto incartapecorito come quello di un vecchio: si tratta di uno degli Esper, persone con poteri psichici frutto di esperimenti governativi, fuggito, grazie ai rivoluzionari, alla cattività in cui l’esercito l’aveva coattamente rinchiuso. Quando le forze speciali, condotte da un colonnello grande, grosso e marziale, si palesano per recuperare l’Esper, Tetsuo è lì con lui, e viene anch’egli prelevato, rinchiuso e sottoposto a degli esperimenti per risvegliare la sua forza psichica. Qualcosa non va come dovrebbe: Tetsuo acquista incredibili poteri, ma allo stesso tempo perde la testa. Vuole rifarsi di tutta una vita in cui è stato la spalla del capo, conquistando, con la forza, potere e onori. Il suo obiettivo, quindi, è quello di trovare e distruggere Akira, l’unico Esper in possesso di poteri più grandi dei suoi.


I Cultissimi di Cineblog: Akira di Katsuhiro OtomoI Cultissimi di Cineblog: Akira di Katsuhiro OtomoI Cultissimi di Cineblog: Akira di Katsuhiro Otomo

In riferimento alle opere d’ingegno è piuttosto inflazionato il termine “capolavoro”.

Tale appellativo dal significato ben preciso viene speso spesso e volentieri in modo improprio e fuorviante, sicché un pastrocchio dalle dimensioni di un francobollo dipinto da un pittore celebre, il più scialbo dei romanzi di un autore di best-seller, la più stonata composizione di un musicista di successo e il più vacuo film di un regista campione d’incassi vengono definiti “capolavori”.

È l’euforia dei linguaggi che impedisce l’attribuzione del giusto peso alle varie manifestazioni artistiche.

Ma la storia è un giudice molto più rigoroso, capace di restituire con precisione clinica il corretto valore a ciascuno degli innumerevoli figli della creatività

Alla storia non sfugge la moltitudine di proseliti di Neuromante, così come è attenta alle influenze che Blade Runner ha avuto sulla fantascienza in ogni sua forma, mentre relega in un secondo piano le opere all’inizio incautamente incensate.

In base a questi principi, Akira è un capolavoro autentico, nel rispetto del significato letterale del termine.

Si tratta di un manga (nonché di un film di animazione) che ha mutato profondamente l’immaginario giapponese, ma ancor più è riuscito a portare all’attenzione del pubblico occidentale una fantascienza nipponica dalla complessità e dalla maturità ben maggiori di quanto prima si sospettasse.

Apparso per la prima volta sulle pagine di Young Magazine, Akira è considerato a ragione l’opera principale di KATSUHIRO OTOMO, personalità eclettica capace di cimentarsi con la china o dietro la camera da presa con risultati ugualmente considerevoli.

Siamo di fronte a una storia e a un autore da cui hanno attinto moltissimi seguaci (occasionali o meno) e persino nella fantascienza giapponese più recente è possibile trovarne profonde tracce. Particolarmente significative alcune analogie tra il film diretto da Otomo e il più notevole fenomeno della fantascienza del Sol Levante degli ultimi anni: Neon Genesis Evangelion di HIDEAKI ANNO.

L’utilizzo delle musiche, dei silenzi e della dimensione onirica è straordinariamente simile nei due casi, così come vi sono importanti congruenze tematiche: l’apocalisse, la crudeltà delle sperimentazioni genetiche sull’uomo, l’evoluzione forzata della nuova umanità, il coinvolgimento di persone comuni in contesti al di là della loro portata, la scelta tra etica e necessità, per citarne solo alcune.

Tra la schiera di potenziali eredi di Katsuhiro Otomo il più accreditato è probabilmente RYOJI MINAGAWA, co-autore di Arms (vedi Continuum n° 12) e che vanta tra le sue fortunate produzioni il noto Spriggan.

A questo proposito vale la pena spendere due parole in più: Spriggan è stato trasposto in una versione cinematografica anime, la cui supervisione è stata affidata proprio ad Otomo.

Una benedizione? Una sorta di passaggio del testimone? È possibile, ma sono affermazioni su cui andare cauti, almeno per un paio di motivi.

Il primo è che Otomo non ha ancora appeso i pennelli al chiodo. Soprattutto non ha affatto abbandonato l’animazione, viste le uscite di Metropolis e del recentissimo Steamboy.

Il secondo è il pericolo di confondere l’oro con l’ottone: Minagawa è senz’altro un buon mangaka, ma la sua storia e il suo bagaglio tecnico non sono oggettivamente paragonabili a quelle del suo ideale maestro, che lo sovrasta per pulizia del tratto e per completezza.

Otomo è infatti uno dei pochi mangaka capaci di curare completamente un’opera, ovvero testi e disegni, senza mai scadere da una parte o dall’altra. Per capire la singolarità della cosa, basti confrontare questo autore con altri due dei più celebri fumettisti del lontano Oriente: RUMIKO TAKAHASHI (buone storie almeno nella maggior parte dei casi, ma disegni abbastanza essenziali) o MASAKAZU KATSURA (una tecnica grafica eccellente illustra narrazioni prive di spessore e sovente cariche di ingenuità veramente irritanti).

Otomo al contrario non lascia nulla al caso, e Akira è la migliore testimonianza della sua grande meticolosità.

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