mercoledì 23 giugno 2010

GUMMO

Gummo (1997)

Regista: Harmony Korine

Sceneggiatura: Harmony Korine

Cast: Chloë Sevigny, Harmony Korine, Jacob Sewell, Nick Sutton, Lara Tosh, Jacob Reynolds, Darby Dougherty, Carisa Glucksman, Jason Guzak, Casey Guzak, Wendall Carr

Nazione: Usa

Produzione: Fine Line Features

Xenia, Ohio. Un tornado ha distrutto gran parte delle abitazioni e decimato la popolazione (fatto realmente accaduto, siamo nel 1970). Anni dopo nulla è cambiato. Il trauma psicofisico causato da un evento naturale che ha il sapore di un diluvio universale mancato (punizione divina?) lascia nelle mani dei bambini una cittadina sperduta nel midwest statunitense.

Harmony Korine esordisce alla regia due anni dopo la convincente (e controversa) sceneggiatura di "Kids" e si distingue subito per originalità e per esplicita noncuranza delle regole del cinema mainstream americano. Un grande numero di tableaux autoconclusi e disturbanti si sovrappongono l'uno all'altro fino a formare una costruzione confusa e spiazzante. Utilizzando le prerogative del cinema direct, l'improvvisazione, la macchina a spalla, una colonna sonora slegata e frammentaria, un montaggio non lineare e alogico, il giovane autore sfida il pubblico a dimenticare la rassicurante confezione estetico-narrativa della produzione hollywoodiana e ad addentrarsi in un mondo crudele e amorale, grottesco e marginale ma sempre, e qui risiede la sua forza, credibile.
Le fantasie più assurde e animalesche di Korine non fanno che trarre spunto dalla vita reale, dal white-trash nichilista (e inconsapevole) delle periferie cittadine, dall'ignoranza dilagante di frange sempre meno marginali della popolazione americana. I bambini-padroni di Xenia(che uccidono gatti, sniffano colla, compiono atti vandalici di ogni sorta) saranno gli adulti di domani. I pochi adulti rimasti non si distinguono dai bambini per ferocia e insensatezza.
La visione è raccapricciante ma supportata da una riflessione disarmante: la mancanza di educazione e cultura non può che generare una recessione sociale e una bestialità mostruosa. L'atmosfera in equilibrio fra un surrealismo decadente e un realismo grottesco sembra minacciata da una forza invisibile e malvagia, opprimente (le luci fluorescenti usate sul set contribuiscono visivamente). Come se un nuovo uragano fosse pronto a radere al suolo questa realtà autogestita e fallimentare.
Si lascia la sala con un senso di indefinito fastidio, nauseati dalle aberrazioni che l'uomo stesso può provocare, come se lo spleen in salsa trash in cui siamo stati immersi per 90 minuti si fosse impadronito di noi, insinuandosi nelle pieghe della nostra coscienza. Un film che lascia il segno nel bene o nel male.

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mercoledì 26 maggio 2010

Lasciami entrare


TRAMA

Oskar, un dodicenne timido e ansioso, è regolarmente vessato dai compagni di classe, senza che riesca mai a ribellarsi. Una notte, mentre fantastica su come vendicarsi, gli appare Eli, anche lei dodicenne, appena trasferita col padre nella casa accanto. La ragazza è pallida, ha uno strano odore ed esce solo quando è buio. In coincidenza con il suo arrivo, si verificano sparizioni inspiegabili e omicidi. Per un ragazzo come Oskar, affascinato dalle storie macabre, non ci vuole molto a capire che tra Eli e questi sanguinosi eventi esiste un legame.

Lasciami entrare è il film che decreta una distanza siderale e definitiva tra adolescenti e adulti. La insinua sottobanco, con precisione geometrica, applicando anche qui la forma (solo la forma) del genere: il vampiro come traslazione figurata dei giovani che si nutrono degli adulti, ne succhiano il sangue, li consumano. Grandi e piccoli sono categorie umane lontane, in conflitto complessivo e universale, che non si aiutano tra loro, ma collidono; in tal caso suona consapevole l’uso del doppio registro, la prosa tradizionale (le urla della madre di Oskar silenziate dalla musica) contro la trovata eversiva e disorientante (l’ostacolo visivo della porta nella vampirizzazione di Locke), allo scopo di ricreare un’altra lontananza, stavolta di tipo stilistico. Il divario ha poi un esatto corrispettivo narrativo, imprescindibile, nel personaggio interpretato da Per Ragnar: “cacciatore di cibo” a fin di bene, figura preconizzante, riassunto del futuro rapporto Oskar/Eli, questi dimostra come la possibilità sentimentale sia davvero tale solo in stato adolescenziale; quando si cresce i rapporti avvizziscono e seguono piuttosto dettati utilitari (“Ti servo solo a questo”), laddove la condanna è invecchiare vicino alla presenza di ciò che si è stati: Eli è lo spettro dei propri 12 anni. Così l’ex amante del vampiro, rassegnato, uccide alla ricerca della morte. In tanta tensione astratta, protesa verso continue vette ossimoriche (bianco e rosso, candore e turpitudine, latte e sangue), il simulacro prevale sui caratteri: l’immagine resistente al tempo, che porta la creatura a difendere gli altri da sé stessa, e quella attuale insopportabile, che impone di sfregiare un volto pur di non vederlo appassito. Anti-univoco nell’epoca della leggibilità, senza percorsi guidati ma aperto, applicato ai mostri veri, Adolescenza e Crescita, l’altissimo risultato di Alfredson è infine un saggio sulle possibilità di questo tipo di film. A memoria futura un teen movie in senso pieno, sia etimologico che profondo, velatamente esistenziale, quasi personale: il vampiro non è una costruzione mitica, è intima.

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venerdì 7 maggio 2010

TERRA E LIBERTA'


Titolo Originale Land and freedom
Diretto da Ken Loach
Genere Drammatico
Release 1995
Runtime 109 minuti
Paese UK / Spagna / Germania / Italia
Lingua Inglese / Spagnolo / Catalano
Cast Ian Hart (David), Rosanna Pastor (Blanca), Iciar Bollain (Maite), Tom Gilroy (Lawrence), Marc Martinez (Vidal), Frederic Pierrot (Bernard)

Muore un anziano. La nipote, casualmente, trova delle lettere. Il nonno era tutt'altro che un personaggio insignificante. Eccoci nel 1936: il giovane inglese David va in Spagna per combattere contro Franco. In quel paese stanno confluendo giovani da tutto il mondo, richiamati dal magnifico ideale libertario. Non hanno armi, non hanno organizzazione, hanno solo entusiasmo. Ottengono qualche vittoria iniziale e sembra che si possa realizzare l'ideale comunista rivoluzionario. Nel frattempo David vive tutte le esperienze, compreso l'amore per una pasionaria. Alla fine le troppe tendenze rivoluzionarie si scontrano fra loro, comunisti tradiscono comunisti e Franco, fascista organizzato, finisce per beffare tutti e vincere.

Ken Loach abbandona la “sua” Inghilterra e va in Spagna, a raccontarci cosa è stata, ma soprattutto cosa ha significato, la guerra civile degli anni trenta. Un film sulla memoria, storica ma anche individuale, che proprio dalla memoria trae il suo spunto: critico e di riflessione. Le prime scene, segnate dal cinismo con cui un barelliere annuncia ad una ragazza che suo nonno è morto, vedono il ritrovamento da parte della nipote, di antichi ritagli di giornale, documenti e fotografie. Proprio dai suoi ricordi, ma attraverso gli occhi di adesso, si ripercorrono gli atti di una tragedia dolorosissima: non solo perché lasciò che Franco e il totalitarismo vincessero contro l’idea di una Repubblica libera, ma anche perché quella civile è la guerra più crudele che si possa combattere.
Non Uomini contro Uomini, ma Fratelli contro Fratelli.
Con estremo rigore storico, alternando momenti lirici a sequenze di cruda violenza, Loach riesce nell’intento non facile di trasmettere con emozione (mai eccessiva) e in ogni momento, le sensazioni di un giovane comunista, partito da Liverpool per difendere gli ideali di Giustizia e Libertà, che finirà ideologicamente sconsolato per gli avvenimenti che progressivamente portarono ad una vergognosa lotta interna tra i miliziani (soprattutto anarchici) del POUM e i comunisti, asserviti alla politica apparentemente più moderata dell’Unione Sovietica. In una delle scene più memorabili due combattenti volontari, ma all’interno delle due distinte fazioni, si ritroveranno uno di fronte all’altro, fucile in mano, a discutere sul perché stanno lì a spararsi tra di loro invece che contro i fascisti. L’estrema lucidità con la quale si ricostruiscono le vicende di quegli anni, non impedisce la grande commozione con la quale si assiste ad alcune scene di straordinaria bellezza rivoluzionaria. Quella della presa di un paesino da parte dei rivoluzionari che prima uccidono un prete (assassino) e poi di come e quando collettivizzare la terra, è testimoniata da una telecamera a spalla che commuove nel suo frenetico rincorrere sguardi, gesti e parole dei protagonisti che discutono. Nel racconto c’è spazio anche per una storia (nella Storia) d’amore, ma lo spunto principale di riflessione poggia sull’amara considerazione che se si fosse la guerra, probabilmente la Rivoluzione, che è contagiosa, si sarebbe potuta espandere in tutto il mondo. Loach, che quasi sempre ha appoggiato i più deboli o gli sconfitti, non si lascia però prendere da nostalgia o rassegnazione, regalandoci alla fine del film, un messaggio di speranza e responsabilità alle nuove generazioni, perché possano continuare a lottare sempre per la Terra e la Libertà, quelle racchiuse in un fazzoletto rosso depositato sulla bara del nonno…

“E’ un film in cui compaiono disperate necessità di combattere per la libertà”

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venerdì 12 marzo 2010

Zelig

Cast tecnico artistico
Regia Woody Allen
Sceneggiatura Woody Allen
Fotografia Gordon Willis
Scenografia Mel Bourne
Costumi Santo Loquasto
Montaggio Susan E. Morse
Musica Dick Hyman, Horst Wessel (song "Die Fahne hoch")
Prodotto da Robert Greenhut, Charles H. Joffe, Jack Rollins
Produzione Robert Greenhut, Charles H. Joffe, Jack Rollins per Orion Pictures; USA, 1987
Durata 79'
Distribuzione Italia P.I.C. - Warner Home Video (Gli Scudi)
Distribuzione Usa Orion Pictures Corporation
Personaggi e interpreti
Leonard Zelig Woody Allen
Dr. Eudora Fletcher Mia Farrow
Dr. Sindell John Buckwalter
Gland Doctor Marvin Chatinover
Mexican Food Doctor Stanley Swerdlow
Dr. Birsky Paul Nevens
Hypodermic Doctor Howard Erskine
Paul Deghuee John Rothman

Leonard Zelig nato a New York, figlio di una matriarca e di un fallito attore yiddish, è un poveraccio con un'insaziabile sete di affetto, che risale alla sua triste infanzia di emarginato ebreo. Invece di carezze e baci ha ricevuto in sovrabbondanza bastonate: "Mio fratello mi bastonava, mia madre bastonava me e mio fratello. I vicini bastonavano la mia famiglia, mia madre, mio fratello e me...". Questa carenza affettiva porta Zelig a identificarsi psicologicamente e fisicamente con le persone che incontra: è un camaleonte umano. Con un suonatore negro di jazz diventa suonatore di jazz e negro, con dei campioni di baseball diventa anch'egli campione di baseball, diventa obeso con gli obesi, indiano con gli indiani... Diventa sosia perfino del papa Pio XI, e disturba Hitler mentre arringa una folla di nazisti.

Zelig di Woody Allen è un saggio quintessenziale sul Novecento: anche solo per questo grande è la sua rilevanza didattico-culturale.

Intorno al personaggio di Leonard Zelig, Woody Allen costruisce infatti il paradigma del rapporto tra verità e finzione:
- sul piano linguistico e propriamente filmico
- sul piano narrativo
- sul piano filosofico
- sul piano storico-culturale

Il film, del 1983, diviene un modello testuale per tutti i cineasti che a vario titolo e con varie finalità si misureranno con il meta-cinema e con tecniche di manipolazione audiovisiva sempre più raffinate: da Stone a Zemeckis e Spielberg, per restare agli statunitensi. Il film è dunque essenzialmente un saggio metalinguistico: ecco perché è un saggio sul Novecento.

Riepiloghiamo schematicamente alcune questioni in merito. A metà del XIX secolo, con l'invenzione della fotografia, l'uomo trasferisce alla tecnologia il compito di rappresentare "oggettivamente" la realtà fuori di sé. La separazione tra soggetto che conosce/descrive/rappresenta e oggetto da conoscere/descrivere/rappresentare, grazie ad un dispositivo artificiale, sembra marcarsi con nettezza.

Ma si tratta di una illusione prospettica: tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, grazie alle applicazioni degli studi teorici sulle proprietà del radio, per la prima volta, l'uomo può guardare dentro di sé: da vivo. E "rappresentare il non visibile". Così, la distanza tra soggetto e oggetto si accorcia repentinamente e imprevedibilmente: "l'uomo non incontra altro che sé stesso" (Heinsenberg). L'indagine su qualunque "oggetto", umano o naturale, procede in dipendenza necessaria dalla tecnologia: la divaricazione natura-cultura si è annullata al punto che l'uomo per procedere nella conoscenza modifica l'oggetto stesso della conoscenza e forza le "leggi di natura" che sembrano regolare i fenomeni. Principio di indeterminazione, teoria della relatività, psicoanalisi: il "nuovo rinascimento scaturito dalla crisi dei fondamenti squaderna uno scenario del tutto inedito in cui il concetto stesso di unicità risulta paradossale.

Il film Zelig è una fiction che svolge il tema del documentario e lo fa mescolando magistralmente tutti i possibili materiali visivi e sonori e conducendo lo spettatore in una dimensione labirintica in cui il tempo (gli anni '20 e '30 e il presente) e lo spazio (America e Europa) della narrazione si dilatano e si comprimono nei passaggi misteriosi e nei percorsi senza uscita creati dal montaggio di materiali "veri", cioè "d'epoca", con materiali "falsi", cioè realizzati ad hoc.

Lo fa depistando continuamente lo spettatore con didascalie fuorvianti come quella iniziale in cui si ringraziano "per il seguente documentario" un personaggio inventato, la "sorella vivente" di Eudora Fletcher (interpretata dalla madre reale di Mia Farrow, a sua volta interprete di Eudora), e personalità della cultura come il premio Nobel Saul Bellow o la scrittrice Susan Sontag.
Il film racconta la storia di Leonard Zelig ricostruendola:
- a colori attraverso "testimonianze" di contemporanei di W. Allen: alcuni noti, altri no
- in b/n attraverso cinegiornali e filmati d'epoca autentici montati con altri falsi girati ad hoc
- in b/n attraverso spezzoni di fiction d'epoca utilizzate come immagini documentarie
- in b/n attraverso foto d'epoca autentiche manipolate e altre false scattate ad hoc
- in b/n attraverso giornali d'epoca autentici manipolati e altri falsi stampati ad hoc
- in b/n attraverso la realizzazione di una falsa fiction "d'epoca" che racconta la storia romanzata di Zelig
- con la voce fuori campo di un narratore con timbro da commentatore di cinegiornale
- con la voce fuori campo (di Zelig o di altri) manipolata per contraffare una "registrazione d'epoca"
- con didascalie esplicative fuorvianti o tautologiche
- con sottotitoli (per le versioni doppiate)
- con l'introduzione di falsi oggetti "d'epoca" nelle riprese (gadgets, indumenti, balli, canzoni, ecc

In Zelig W. Allen esercita poi il suo talento di narratore e sperimenta virtuosisticamente diversi generi:
- l'informazione giornalistica e radiofonica (alludendo maliziosamente a quella televisiva)
- l'informazione documentaristica
- il romanzo e il film d'appendice
- il racconto storico e di costume
- l'intervista
- il resoconto scientifico
- la tradizione religiosa
- sul piano propriamente meta-narrativo: la parodia e la satira, l'autobiografismo, la critica

Leonard Zelig è un personaggio surreale che attraversa la Storia reale.
La verosimiglianza (come direbbe Manzoni), o addirittura l'autenticità dei personaggi che fanno coro a Leonard Zelig, permette all'intellettuale ebreo Allen Konisberg, in arte Wody Allen, di raccontare eventi e passaggi storici cruciali e di sottolinearne la drammaticità con consapevolezza ex post.
Gli eventi sono quelli decisivi che "impostano" il corso del Novecento e alimentano ancora vigorosamente il dibattito storico (il film è dell'83, ovvero precede - e anticipa con sorprendente sensibilità - la fase del "crollo delle ideologie").
Gli eventi a volte sono esplicitati, a volte sono allusi. Nel primo caso sono inestricabilmente legati ai "luoghi" in cui sembrano svolgersi.

Relativamente a questo aspetto rimandiamo sostanzialmente alle considerazioni introduttive, soprattutto per quanto riguarda le antitesi verità/finzione, realtà/irrealtà, vita/arte, ecc..

Ricordiamo tuttavia la rilevanza, nel Novecento e fino ad oggi, della riflessione sul rapporto tra massa e potere, e specificamente sul ruolo che i mezzi di comunicazione di massa hanno svolto e svolgono nell'orientare/condizionare tale rapporto (si vedano al proposito: W. Reich, La Scuola di Francoforte, Lyotard, La condizione post-moderna; e specificamente per il cinema: R. Renzi, Il cinema dei dittatori).

Né secondaria è la riflessione sui risvolti sociologici, ideologici ed etici derivati dalla diffusione (di massa?) della psicoanalisi; e tanto meno lo è quella relativa ai legami della scienza e della tecnologia con l'economia e la politica.

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domenica 7 febbraio 2010

The Intellectuals - Invisible is the best #2007


Da Radio Molotov:

"Secondo album per gli Intellectuals, il gruppo romano di thrash punk e di garage blues ora diventato un trio grazie all'apporto di Tina, chitarrista delle FELT UPS che nell'occasione offre il suo apporto alle tastiere. Velocità, ritmo e afflato punk sono le chiavi di interpretazione scelte dalla band per un album registrato in soli quattro giorni, assolutamente "non prodotto" - come tengono a precisare gli stessi Intellectuals sulle note di copertina. Il disco contiene canzoni originali, davvero divertenti e ben riuscite, come Vinyl Junkie Paranoia, My Brother Chorizo e la fantastica Fichetti (un tributo o una citazione da Sono Un Ragazzo di Strada dei CORVI, reinterpretata da Tonino Carotone?) alle quali si aggiungono cover importanti come White Light/White Heat dei VELVET UNDERGROUND, Identity degli X-RAY SPEX e Never Understand dei JESUS & THE MARY CHAIN, tutti gruppi che hanno influenzato in maniera determinante le scelte musicali di questa giovane band. Canzoni brevi ed esaltanti, condite con grida furibonde e selvagge, molto poco "intellectuals", che mettono in discussione tutto, scoperchiano falsità ed ipocrisia, che ti mettono con le spalle al muro e ti obbligano all'ascolto."

Extra Music Magazine

The Intellectuals - We are cells


Tracklist:

01. Vinyl junkie paranoia
02. We are cells
03. Identity (X-RAY SPEX cover)
04. Go to the beach with cinnamon girl
05. R'n'r jedi
06. Baby-o
07. White light/White heat (VELVET UNDERGROUND cover)
08. Fichetti
09. Oh! Freud
10. Cheated babe bop
11. The insiders
12. My brother chorizo
13. Swimmin'
14. Never understand (THE JESUS & THE MARY CHAIN cover)

Dead Beat records
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Myspace
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sabato 30 gennaio 2010

Quadrophenia



Fotografia: Brian Tufano
Produzione: ROY BAIRD E BILL CURBISHLEY PER THE WHO A POLYTEL
Distribuzione: FILM 2 MEDUSA CIN (1980) - POLYGRAM FILMED ENTERTAINMENT VIDEO, L'UNITA' VIDEO
Paese: Gran Bretagna 1979
Genere: Drammatico, Sociale
Durata: 109 Min
SITO WEB

Londra, 1964. Jimmy è un membro di una banda di Mods (dall'inglese Modernists, giovani ben vestiti che guidano scooter italiani come Lambretta e Vespa). I Mods sono contrapposti ai Rockers, il cui stile è analogo a quello dei seguaci del rock and roll americano anni '50, vestiti con giubbotti di pelle in sella a grosse motociclette. Incompreso in famiglia e costretto a un lavoro da fattorino, Jimmy cerca la soluzione alle sue ansie giovanili all'interno della sua banda, insieme ai suoi amici Dave, Chalky e Spider facendo uso e abuso di alcol e di pillole "blu", anfetamina).

Tre giorni di festa, chiamata in inglese "Bank Holiday" sono il pretesto per portare all'apice la rivalità fra le due bande, che culmina con gli scontri a Brighton, cittadina della costa orientale britannica, dove orde di Mods e Rockers si affrontano in una vera e propria battaglia: il film rievoca, così un episodio realmente accaduto e conosciuto come "la battaglia di Brighton" avvenuta nel maggio del 1964. Jimmy è arrestato, in seguito ai disordini, insieme ad "Asso" (in inglese Ace Face, interpretato da Sting), considerato l'idolo dei Mods; un ragazzo dallo stile perfetto con uno scooter invidiato da tutti.

E' il 1979 quando nei cinema esce "Quadrophenia", film tratto dal celeberrimo e omonimo doppio album degli Who, che ne è anche la colonna sonora principale.
La band inglese The Who produsse questo film facendone il manifesto di una generazione di cui era massimo punto di riferimento culturale: ne risulta un'apologia nostalgica avvincente, un crudo spaccato della generazione inglese degli anni ’60.

Celebrazione della mod-generation, ma anche suo crepuscolo, proprio nel momento in cui in Inghilterra Paul Weller e lo ska/rocksteady ne proponevano un revival.
In realtà, però, Quadrophenia è anche qualcosa in più di un semplice film manifesto: risente molto infatti dell'eredità del Free Cinema inglese, di quel movimento di rinnovamento che scosse la tradizione del cinema britannico alla fine degli anni cinquanta, come molte altre nouvelle vagues sparse qua e là per il mondo.
Come i film di Lindsay Anderson, Tony Richardson e Karel Reisz, l'opera degli Who ostenta uno sguardo acuto sulla parte suburbana della città e sulla condizione della classe operaia: i suoi protagonisti fanno tutti lavori umili, non hanno futuro, e vivono ai margini della Swinging London publicizzata dal cinema ufficiale.
Lo stile di ripresa è molto libero, si limita a seguire il protagonista con primi piani e piani medi, nel suo percorso di maturazione attraverso amori infelici, scontri con la banda rivale dei rockers, corse in Lambretta, fino alla maturazione, alla disillusione e alla presa d'atto che anche essere un mod, alla fine non è un granchè. Si concede qualche licenza poetica con campi lunghi che lo isolano nel contesto e ne mostrano la solitudine, specialmente nel finale in cui Jimmy scopre che tutto quello in cui aveva creduto, per i suoi compagni mods, era solo un gioco.
Come ogni film generazionale, anche Quadrophenia è inevitabilmente pervaso di malinconia.


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sabato 16 gennaio 2010

Brother


REGIA:
Takeshi KITANO

PRODUZIONE: U.S.A./Jap/Gb - 2000 - Dramm.

DURATA: 110'

INTERPRETI:
Takeshi Kitano (Beat Takeshi), Omar Epps,
Claude Maki, Masaya Kato, Ren Osugi

SCENEGGIATURA: Takeshi Kitano

FOTOGRAFIA: Hitoshi Takaya

SCENOGRAFIA: Norihiro Isoda

MONTAGGIO: Takeshi Kitano - Yoshinori Ota

COSTUMI: Yohji Yamamoto

MUSICHE: Joe Hisaishi


La storia di Yamamoto, membro della Yakuza, a cui è stata sterminata la famiglia in Giappone dalle bande rivali, che decide di andare in America a trovare suo fratello Ken, arrivato negli States per motivi di studio, diventato nel frattempo piccolo spacciatore di droga. L'imperscrutabile Yamamoto, pur non conoscendo una sola parola d'inglese, decide di unirsi al fratello e al suo clan, per assumere il controllo del traffico della droga a Los Angeles. Il potere della nuova famiglia, da lui costituita, viene però fortemente contrastato dalle altre associazioni mafiose della città. Inizia una vera e propria guerra tra i clan.

Trionfo dell'ortogonalità, scoppio dello statico di contro alla "metafisica della velocità che elimina il pittoresco naturale ", afflusso del fisico, questo porta Kitano a Los Angeles. Quadri fissi panoramicano sul vetro-metallo postmoderno meglio di qualunque ripresa aerea ("The Million Dollar Hotel" di Wenders) sui grattacieli, sulle luci verdi e grigiazzurre dei loft. Il sentimento ha le lettere sbavate di BROTHER, o l'ideogramma della morte composto nel sangue con cadaveri sul parquet della palestra-ufficio; a legare i poveri burattini di Kitano, oppressi dalla loro stupidità ed arroganza, resistono rituali feudali da bushido, la cerimonia dell'accettazione con i fogli di carta di riso lindi e perfettamente disposti, i movimenti stilizzati della cessione della propria vita, il sorseggio del sakè benedetto, mignoli tagliati, sventramenti autoinflitti senza gemiti. Degli uomini resistono le pulsioni infantili, l'unione appunto avviene nel gioco, nel barare scherzoso ai dadi: di fronte all'oceano Pacifico, la stessa acqua, quindi la stessa vita e la medesima morte, gli stessi uomini, si rincorre una palla da football, ci si libera dal timore della solitudine sancendo la solidarietà del gruppo, l'unica cellula accettabile.
Il contrasto tra due culture (non si badi allo stupro del doppiaggio: nell'originale le due lingue coesistono) è nell'espressione: la logorrea americana, cialtronesca vive di sghignazzi contro i silenzi accigliati dei japs riassunti in Beat Takeshi con il suo riso di sospiro; uguali i pensieri.
La necessità che regola i rapporti mafiosi porta alla guerra spietata, un bagno si sangue, luminescente tripudio di flash esplosi da mitra e pistole automatiche, ad illuminare una sequenza di ultimi istanti, riflessi sulle nere limo. Aniky non accetterà l'ultima sfida, ne è sempre stato cosciente, "moriremo tutti" sentenzia, non conta. Morta la sua donna, in modo atroce, gli resta solo un amico, Dennis e fa in modo di salvarlo, è sua la fine nel sangue, sua l'oscena esistenza di brutalità inutili e ritualizzate che deve terminare: steso disarticolato come un eroe del bunraku , grottesco ed immerso nel suo sangue. Una gru a salire oltre il tetto del diner (Welles?), riporta alla vita ed al ricordo di un amicizia strampalata, nelle parole e negli occhi lucidi di chi vivo non sa cosa fare di sé e copre la sua solitudine di parole.
Un'altra figura di yakuza si aggiunge nella filmografia di Kitano, con i toni questa volta del marrone e del grigio, lontano dallo sfavillio di "Sonatine" e "Hana-Bi" ma con il medesimo senso della messa in scena e con la stessa poetica: nell'atroce esistenza senza significato di una pedina può sgorgare l'emozione così come da una sanguinosa sparatoria, su di un muro blu, spuntano purpurei fiori di loto.

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giovedì 7 gennaio 2010

Persepolis

REGIA:
Marjane SATRAPI, Vincent PARONNAUD

PRODUZIONE: Francia - 2007 - Animazione

DURATA: 95'

PERSONAGGI:
Marjane (Paola Cortellesi), Madre di Marjane (Licia Maglietta), Padre di Marjane (Sergio Castellitto), Nonna di Marjane (Miranda Bonansea), Zio di Marjane (Angelo Maggi), Marjane bambina (Angelica Bolognesi)

SCENEGGIATURA: Marjane Satrapi - Vincent Paronnaud

ART DIRECTOR: Marc Jousset

MONTAGGIO: Stéphane Roche

COSTUMI: Marisa Musy

MUSICHE: Olivier Bernet

SITO WEB



Dal 1978 ad oggi, l’autobiografia di Marjie si lega alla Storia moderna dell’Iran: da piccola è spettatrice della caduta dello scià seguita dalla repressiva Repubblica Islamica; poi viene mandata dai genitori a studiare a Vienna.

Lungometraggio di animazione, spunto di riflessione morale e politica, Persepolis è un film emozionante e coinvolgente, adatto ad una fascia di pubblico estremamente ampio (dai bambini ai centenari). La fumettista Satrapi e Parannoud riescono a conciliare tematiche drammatiche con uno stile vivace e frizzante, che fa camminare in parallelo la tragicità di alcuni fatti narrati ad una vena di esuberante ironia. Attraverso il racconto dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta di Marjane, Persepolis si fa portavoce della storia di un Paese continuamente martoriato da conflitti e regimi dittatoriali, e le tristi vicende di un popolo si intrecciano con quella di una bambina piena di vita e di desideri, capace di cercare e trovare il lato positivo in ogni situazione e circostanza. L’Iran, così come poi l’Austria e in seguito la Francia, diventano le ambientazioni perfette per delineare i diversi stati d’animo che corrispondono alle questioni umane che Marjane e la sua famiglia si ritrovano a fronteggiare nel corso degli anni. Persepolis non è solo un “romanzo di crescita”, ma è l’appassionata epopea di un popolo e di una società. Con delicatezza e spigliatezza, il film racconta il serrato succedersi di diverse privazioni imposte dal regime dittatoriale iraniano: dall’imposizione del velo per le donne, alla censura dell’arte e della musica, alla proibizione del consumo di alcol Persepolis passa in rassegna tutti quegli elementi che hanno fatto sì che la vita in Iran diventasse sempre più pesante. Non bisogna però illudersi che la Satrapi e Parranoud scelgano di raccontare una storia a senso unico volta solo ad evidenziare i difetti e i problemi di una vita sotto un governo totalitario: nel corso della narrazione infatti vengono sbalzati e definiti i contorni anche di una società occidentale poco pronta all’accoglienza, apparentemente comprensiva salvo poi rivelarsi chiusa nelle barricate dei luoghi comuni e del pregiudizio. Marjane si trasforma così in un’eterna straniera: sebbene il mondo arabo con le sue imposizioni le vada stretto, la ragazza non si sente a suo agio, e tanto meno compresa all’interno delle salde roccaforti europee. Con disegni semplici, dai tratti netti ed espressivi, Persepolis fa da narratore ad una vicenda moderna e contemporanea appassionante e drammatica, senza piombare nel tedio. Al contrario è facile divertirsi e affezionarsi alla figura di Marjane, ragazzina intelligente, ribelle, con la passione per la politica e la musica. Un lungometraggio animato coraggioso, affrontato con l’ironica saggezza di chi riesce a destreggiarsi nelle varie situazioni con il sorriso sulle labbra, fra il fumo di una sigaretta e il nodo di un chador.

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