mercoledì 23 dicembre 2009

Koyaanisqatsi


Sceneggiatura: Godfrey Reggio
Fotografia: Ron Fricke
Musiche: Philip Glass
Produzione: GODFREY REGGIO
Distribuzione: IMC (1984)
Paese: USA 1983
Genere: Allegorico, Documentario
Durata: 80 Min

Quando gli Hopi - una antichissima tribù di pellirossa dell'Arizona - pronunciano in un contesto di profezie la parola "Koyaanisqatsi" che vuol dire "la vita senza equilibrio", intendono riferirsi agli squilibri e follie di una vita in via di degradazione, alla quale necessita un nuovo stile. Ispirandosi a un tale concetto, questo film (che film però è al tempo stesso un vero e proprio documentario) mira a raffrontare la maestà della natura - terre, mari, cieli - là dove essa è ancora incontaminata, con le precarie e spesso assurde realizzazioni della umanità di oggi, disancorata dai valori più essenziali e, appunto, naturali, lanciata in una corsa demenziale verso il consumismo, l'automazione, le conquiste tecnologichee, forse, la propria stessa fine. Immagini naturali e urbane si suggeguono in un montaggio ora accelerato ora rallentato, ritmato dalla musica che svolge un ruolo chiave.

Primo film della trilogia “qatsi” ad opera del regista Godfrey Reggio. Uscito nel 1982, introdurrà a seguire Powaqqatsi e Naqoyqatsi, entrambi installati sulla prospettiva tematica del primo, attraverso chiavi di lettura allargate. Si tratta di un esperimento estetico. Nulla di più impegnativo per una scelta cinematografica che non prevede né trama, né personaggi ma si sviluppa lungo un viaggio altamente simbolico in cui immagini e musica promettono una sintonia essenziale e continua tra lo spettatore e il messaggio-specchio che ne deriva. Il titolo, in prestito dalla lingua hopi, significa “vita in tumulto” e rimanda al rapporto uomo-natura dagli albori allo sviluppo della moderna tecnologia.

Le musiche di Philip Glass, presenti in tutta la trilogia, tessono perfettamente il binomio suono/immagine, favorendo la fruizione di un percorso acritico e subliminale cui l’uomo prende parte soltanto alla fine. Dal potere della natura che vede sorgere paesaggi impervi in una solitudine senza occhi al potere dell’uomo che argina, disfa e modella la “divina Indifferenza”, direbbe Montale. La forma scabra e indisciplinata della physis si trasforma in vertiginosa architettura da grattacielo: la correzione precaria di uno sbaglio oggettivo che è quello dell’esserci. Il documentario procede senza giudizio e senza domanda. Non esiste il CHI. Non esiste l’evento. Esiste una materia che tenta di adeguarsi ad una forma, più possibile universale. Un “poema per immagini”, così come venne definito, a cerchi concentrici, in cui lo spettatore è giocato alla Gadamer dallo stesso gioco estetico: principio primo dell’opera d’arte. L’incipit da genesi biblica si trasforma in un climax nevrotico d’immagini accelerate di cui il tempo non è più padrone.

Koyaanisqatsi è uno scacco al tempo, una voragine erotica dall’amplesso autodistruttivo. Tecnologia è già natura. Visto dall’alto, un parcheggio è un tappeto colorato, le luci delle auto notturne si tramutano in acrobazie astratte, un palazzo che crolla, carta stropicciata. L’intento di Reggio non è una denuncia ma un’esclusiva ricerca di bellezza e d’ inquietudine allo stesso tempo. Bellezza estetica e angoscia esistenziale. Quest’ultima emerge tra le facce senza personaggio, tra visi inquadrati nel mezzo della storia.

Facce che non chiedono, né rispondono ma sostano sospese sul “tumulto vitale“. Lo stupore del niente. Eppure, al di là del bene e del male, il progresso e le unghie graffiano i vetri: il razzo decolla, aspira tenace, resiste e poi scoppia.

Koyaanisqatsi è un esercizio di morte circolare: la salvaguardia della struttura economica riversata nella frenesia di un sistema cittadino, mondiale, universale. Un ciclo che si ripete in cui il particolare “desidera” l’universale se e solo se è pervaso dal linguaggio musicale che, per sua stessa natura, suggerisce la salvezza tramite rappresentazione.

Poiché ciò che non è rappresentabile genera terrore, esercitarsi a morire significherebbe prendersi cura dell’angoscia e farne Arte. In tal modo l’abisso tra uomo e natura non avrà più modo di esistere e il tumulto sarà l’umana parvenza della quiete.

GUARDA IL FILM

Nessun commento:

Posta un commento